Mentre da noi Calcio e MotoGp la fanno da padroni e noi velisti ci accontentiam di SOLDINI… in Francia con la vela fan girare i SOLDONI!
Les-Sables-D’Olonne, 15 novembre 2016
I (miei) numeri del Vendée Globe
articolo del nostro inviato speciale Giulio Eusepi
In questi giorni ho letto molti articoli, ascoltato interviste e visto video su tutto il mondo ”Vendée”: ovviamente di un evento di questa portata mediatica (circa 1100 giornalisti accreditati al villaggio) in rete si trova qualsiasi informazione. Sui vari blog, social e quotidiani online si sono susseguiti articoli a raffica, con tutti i dati e soprattutto i “numeri” della regata: sulla navigazione, sulle vele, sulle attrezzature, sugli skipper, sulle velocità e sui tempi (dal 1989, nelle prime 7 edizioni sono partiti 138 skipper, di cui 71 sono arrivati alla fine, il record è di Francois Gabart, che nell’edizione 2012-2013 ha completato il giro in poco più di 78 giorni a una media di 15.3 nodi e che detiene anche il primato del vincitore più giovane: aveva 29 anni quando ha tagliato la linea di arrivo). Inoltre non mancano i dati sul riscontro mediatico dell’ultima edizione: 1,9 milioni di persone hanno visitato il villaggio, il sito ha avuto da 9,3 milioni di visualizzazioni, sono stati visualizzati 30 milioni di video, prodotte 738 ore di trasmissioni televisive per un totale di 188 milioni di € di valore mediatico stimato etc etc… Insomma, i numeri si trovano davvero ovunque, tant’è che basta leggere 3-4 “brochure de presse” per sapere i più significativi a memoria.
Ho scoperto anche tanti numeri sugli skipper e sulla navigazione che sono altrettanto interessanti, ma servono più per capire l’impresa sportiva e il livello di impegno richiesto che non a comprendere cosa sia il Vendée Globe nel panorama sportivo francese: 150 kg il cibo imbarcato per garantire una dieta che varia tra le 3500 kcal e le 6000 kcal al giorno in base alla latitudine, 50 kg invece il peso della vela più leggera delle 9 a bordo per regolamento, 21 anni l’età minima richiesta per partecipare, 5 ore di sonno al giorno in media, ammesso che uno riesca a dormire, visto che la barca che corre a 25 nodi e sbatte sulle onde genera all’interno un rumore di circa 120 db (paragonabile ad un aereo in decollo).
È evidente quindi che scrivere qualcosa di originale, che non sia la solita scaletta di cifre, è cosa tutt’altro che facile: bisogna necessariamente abbandonare il sentiero dell’oggettività e del semplice report dei fatti per addentrarsi nella selva delle opinioni e impressioni che scaturiscono dall’assistere alla partenza e partecipare alle attività degli ultimi giorni del villaggio. Per questo motivo ho deciso di descrivere quei fatti e quei numeri che mi hanno colpito particolarmente e che penso siano significativi per capire qual è veramente lo spirito del Vendée e cosa significa per i Francesi.
- 3 – gradi celsius di temperatura la mattina all’apertura del villaggio (e comunque c’era già la fila)
- 2 – ore circa l’attesa in coda per accedere al pontile delle barche venerdì verso l’ora di pranzo
- 4 – di mattina, l’ora in cui domenica i primi spettatori hanno iniziato a occupare i posti sui moli per vedere la partenza
- 11 – gli elicotteri che volavano sopra l’allineamento al momento della partenza (fotografi, televisione e sponsor)
- 2 – i canali televisivi nazionali – France3 e Ouest France – che hanno seguito l’evento giorno per giorno dall’apertura del villaggio alla partenza, con servizi, interviste e tante ore di diretta
- Tantissime – le persone a guardare la partenza dalla spiaggia e dalla costa intorno a Les Sables, da coppie di anziani a famiglie con il paniere per fare il pic-nic in riva al mare.
Perché un evento del genere riesce ad avere in Francia un successo così grande mentre da noi è a malapena conosciuto?
Perché le persone lo seguono, i media lo diffondono e gli sponsor ci investono e da noi gli unici sport per cui la gente fa le file e prende i posti di notte sono il calcio e il motogp?
Il giorno della partenza ho assistito ad un fatto che mi ha permesso di riflettere su questo interrogativo a cui penso spesso: poche ore dopo la partenza, Didac Costa, skipper spagnolo a bordo di Faceocean, è rientrato in porto a causa di una perdita a un ballast che aveva coperto di acqua le batterie e parte dell’impianto elettrico. Per fortuna, in un paio di giorni di lavoro il suo shore-team è riuscito a cambiare le batterie e risolvere i problemi ed è potuto ripartire, adesso è in regata (dal momento della partenza per 10 giorni gli skipper possono rientrare in porto e ricevere assistenza, poi se non sono riusciti a ripartire devono ritirarsi). Quando è arrivato al pontile c’era una ressa di giornalisti, che l’hanno assalito per ottenere foto e interviste non appena i parabordi hanno toccato il molo. Lui, nonostante avesse le batterie a mollo e ogni minuto fosse prezioso per la regata, si è messo a parlare con i giornalisti e a rilasciare interviste e dichiarazioni. Da buon velista pratico, ho pensato subito “Perché stai lì a perdere tempo? Vai sotto a sgottare l’acqua, monta le batterie nuove, e riparti il prima possibile, no?”. Ho condiviso questo dubbio con un paio di amici e colleghi che erano lì con me e discutendone un attimo siamo arrivati a capire: lo skipper non è pagato per andare in barca, è pagato per comunicare. Lo shore-team cambia le batterie, lui parla con la stampa. Questo è il fulcro che nella mentalità italiana, degli imprenditori ma anche degli skipper, manca. Per noi, l’impresa che sponsorizza un velista, lo fa quasi esclusivamente per filantropia pura o per dedurre un po’ di tasse, e vede quella nota rossa in bilancio come una spesa a fondo perduto, non un investimento in pubblicità e immagine. L’impresa italiana media non capisce che investire dei fondi in pubblicità in un campo come la vela, con tutti i valori che sono legati a questo sport (soprattutto nell’altura), è onorevole e proficuo tanto quanto (se non di più) fare spot in televisione, attaccare i cartelloni in giro per le città o mettere il proprio marchio sulle magliette di una squadra di calcio. I nostri cugini transalpini (oltre ad avere l’oceano a portata di mano, che indubbiamente aiuta!) hanno invece capito benissimo che, lo skipper è un “cartellone pubblicitario parlante”, è il vettore di un messaggio. Ed è ovvio che se le aziende comprendessero e investissero, si innescherebbe un circolo virtuoso in cui la crescita dei velisti, l’interesse dei media e il seguito del pubblico sarebbero naturali conseguenze. E l’ipotesi di avere uno, due o magari addirittura tre skipper italiani al Vendée 2020, come sembrava dovesse già accadere in questa edizione (Giancarlo Pedote, Andrea Mura e Alessandro Di Benedetto per diversi motivi hanno dovuto rinunciare al progetto), potrebbe diventare realtà! Io sinceramente ci spero e lo auguro a tutto il movimento della vela d’altura italiana, che sta crescendo tantissimo. Buon vento a tutti!
Ringrazio i colleghi con cui ho condiviso questo viaggio fantastico, Acquadimare.net per l’opportunità e il Press Center del Vendée Globe per l’accoglienza e l’organizzazione.